CONTROLLO DELLE PATOLOGIE APISTICHE IN UN’AZIENDA BIOLOGICA PROFESSIONALE

 Premessa

Se siamo oggi qui insieme a confrontarci, a cercare di capire e aggiungere un qualche contributo, nel panorama sempre più ampio delle patologie delle api, vuol dire che ci siamo resi conto che allevarle non è più semplice e conveniente come una volta. 

Da molto tempo ormai ad ogni convegno, aggiornamento, studio o semplicemente in più di qualche riunione locale, le novità sui loro malesseri e malattie sono sempre più argomento di preoccupata discussione.

Tentare di portare un contributo positivo sull’argomento di questo convegno, tradotto nella pratica lavorativa di ogni giorno, è impresa quanto mai titanica vista la quantità e il numero delle casistiche che si devono considerare in una economica gestione dell’allevamento apistico.

Il tutto deve inoltre essere inquadrato all’interno della più ampia variabile ambientale

dove le api conducono la loro quotidiana attività, intendendo qui l’impatto devastante, a breve e lungo termine, di gran parte dei principi chimici utilizzati in agricoltura o più in generale nell’ambiente, specialmente quello antropizzato, nonché le variazioni climatiche e botaniche che lo hanno caratterizzato in questi ultimi anni.

Per ultimo non sarebbe fuori luogo una coscienziosa considerazione sull’evoluzione del nostro modo di “fare apicoltura” sempre più teso ad esasperare api e produzioni senza tenere nel debito conto le esigenze di benessere biologico di cui abbisognano i nostri alveari.

        Francesco Bortot      Apicoltore Professionista - Tecnico Apistico APAT

                                  Commissione Tecnico-Sanitaria APAT

Introduzione

Equiparare le api ad un qualsiasi animale domestico è probabilmente lo sbaglio più grosso che un’ apicoltore possa fare. È vero che oramai le api non riuscirebbero più a vivere (perlomeno nel breve periodo e alle attuali densità ) senza l’intervento dell’uomo, ma limitare l’influenza e le conseguenze delle nostre operazioni quotidiane o stagionali ai singoli alveari è quanto mai deleterio. Considerando invece l’ape, o meglio l’alveare, come un’entità biologica territoriale, potremmo tentare di spiegarci tanti comportamenti anomali, l’incidenza o la recrudescenza di certe patologie, le difficoltà di sviluppo e inserimento a pieno regime nella realtà produttiva che ci aspettiamo dai nostri impianti.

Un qualsiasi animale selvatico ha bisogno di un suo areale, più o meno ampio a seconda delle dimensioni e del suo comportamento sociale, per vivere e prosperare senza incorrere in sofferenze alimentari o sovrappopolazione che spianano la strada a quelle regolazioni naturali che sono le malattie .

A ben guardare , per l’ape è la stessa cosa .

Apiari troppo consistenti possono essere assimilati agli allevamenti intensivi della moderna zootecnia e troppi alveari nello stesso territorio devono essere accuditi con oculatezza e collaborazione, a volte difficilmente raggiunte, tra gli addetti ai lavori.

Entrano qui in gioco oltre le figure professionali o amatoriali preposte alla gestione delle api, anche e soprattutto Enti, Istituti , Asl e Associazioni che oltre alla preparazione tecnica e professionale hanno l’incombenza di organizzare persone e mezzi in funzione di una corretta gestione del territorio apistico sia dal punto di vista sanitario che nutrizionale. Più semplice a dirsi che a farsi ; ma solo per questa strada, lavorando insieme, si possono ottenere i migliori risultati.

In fin dei conti per troppo tempo le api e l’apicoltura sono state , e sono tuttora, un settore sommerso da tanti punti di vista e per questo spesso dimenticato. Il gran polverone che in questi tempi lo ha caratterizzato, nonostante un primo grande risultato (ndt. la sospensione dei neonicotinoidi per al concia del mais), rischia di ricaderci addosso nascondendoci ancora di più e vanificando sforzo e lavoro di ancora troppo poche persone coinvolte in un’Apicoltura degna di tale definizione.

In particolare, per entrare nel merito dell’argomento, il controllo delle patologie apistiche passa non solo attraverso l’intervento diretto verso di esse ma, anche e soprattutto, per tutte quelle attenzioni che dobbiamo prodigare ai nostri allevamenti al fine di promuovere un vero benessere dell’”organismo”alveare: la Buona Pratica Apistica non è altro che questo.

Alla luce di quanto esposto vi porto la mia esperienza ventennale di apicoltura imprenditoriale fatta di tanti sbagli, tanta fatica, tante soddisfazioni , tanti problemi , tanti colleghi e amici apicoltori, tanti interrogativi risolti o rimasti tali, tanta curiosità.

Perché è tutto questo che in effetti ci aiuta e ci fa andare avanti.

Con un pizzico di tenacia.  

 

Peste americana ed Europea

Rientrate a pieno titolo nelle preoccupazione degli apicoltori mostrano in questi ultimissimi anni una recrudescenza preoccupante, dovuta in particolare modo alla sospensione della somministrazione illegale di antibiotici (da parte delle aziende che li usavano) grazie all’aumento dei controlli da parte delle autorità preposte. Non più “coperte” dallo spettro d’azione del farmaco le famiglie a rischio si ammalano in breve tempo inquinando tutto l’areale circostante causa la loro debilitazione e l’istinto saccheggiatorio che le api dimostrano verso alveari deboli, morti o moribondi presenti nel territorio, coinvolgendo nel tracollo api e apicoltori che finora hanno lavorato bene.

Nella casistica dell’incidenza però, salvo casi particolari,queste patologie non hanno avuto una grande importanza nella mia gestione sanitaria.

Ho sospeso la somministrazione di tetracicline e solfatiazolo nel 1985, passando da un’incidenza del 7-8 % in presenza di antibiotici a quella attuale che nel 2007 è stata pari allo 0.5%,con un’impennata nel 2008 ,causa i saccheggi di fine stagione 2007, pari al 2%. Considerando entrambe le patologie e i nomadismi spinti che mi portano a lavorare al fianco di apicolture di cui non conosco, se non in minima parte, i connotati, mi sembra un risultato di tutto rispetto.

Penso perciò di avere risposto a tutti quelli che mi chiedono cosa penso dell’uso di antibiotici.

Di pari passo , per ottenere questi traguardi , ho lavorato e lavoro parecchio sulle buone pratiche igieniche in apiario, tenendo conto dell’enorme difficoltà di separare le fasi di lavorazione. Non ho la possibilità di ridare alle famiglie gli stessi favi, gli stessi melari, le stesse arnie, non posso controllare tempestivamente gli eventuali saccheggi, ho l’esigenza di scambiare parecchio materiale biologico da un’ alveare all’altro (per esempio con i livellamenti stagionali) e perciò mi gioco tutto sulla prevenzione , pulizia e sterilità dei materiali usati.

Per semplificare quanto esposto proviamo a considerare i tre momenti ben distinti.

 

  • PREVENZIONE : sono tutte quelle operazioni volte ad individuare, isolare e distruggere i focolai di infezione riscontrati in apiario. E’da chiarire che per focolai si intendono tutte quelle famiglie ove si riscontri anche una sola cella che presenti i sintomi di tali patologie. E’purtroppo ancora diffusa l’abitudine di non controllarle a fondo almeno 2-3 volte all’anno. Molti ancora si illudono che quelle malate a volte guariscano da sole e ritardano l’intervento eradicante quando è troppo tardi magari dopo che la famiglia è stata saccheggiata, diffondendo l’infezione. E’ parere diffuso che non tutte le famiglie si comportino alla stessa maniera e che anzi a volte sembrino migliorare, giustificando così a volte il proprio discutibile operato. Prescindendo dal fatto che in casi strani o dubbi è bene sempre effettuare un’analisi(ci sono in commercio dei comodi ed economici Kit diagnostici) è risaputo che le famiglie si ammalano solo raggiunta una certa soglia di spore, per cui è chiaro che un piccolo segnale oggi trascurato potrebbe esplodere a distanza di mesi o l’anno successivo. Prevenzione significa ancora evitare di “recuperare”piccole quantità di materiale biologico(api, sponde di miele, favi con poca covata) da famiglie apparentemente solo un po’ più deboli delle altre o piccoli nuclei che altrimenti non andrebbero in produzione. La logica di ingrossare le famiglie promettenti con “scarti” di apiario non produttivi, risulta molte volte deleteria perché facilmente si può immaginare cosa si toglie ma il più delle volte non si sa quello che si immette. Prevenzione significa inoltre formare le rimonte annuali sicuramente da famiglie sane e vigorose cercando di non compromettere il delicato equilibrio igienico che ogni famiglia, in varia misura, presenta. Riassumendo: prevenzione significa eliminare senza mezze misure tutte quelle situazioni anomale e chiaramente a rischio. E qui il fuoco è il mezzo di eccellenza per risolvere senza complicazioni i problemi sanitari con cui dobbiamo confrontarci. Vale a questo punto ricordare che non sempre la combustione di materiale biologico infetto può essere fatta “in casa”, ma a volte potrebbero crearsi malintesi con le autorità sanitarie qualora si imponga l’obbligo di utilizzare un impianto idoneamente autorizzato.

 

  • PULIZIA: lavorare “pulito” non si deve confondere con il lavorare “sterile”, tutt’ altro paio di maniche. Significa optare per un costante programma di pulizia dei materiali e dei mezzi tecnici che a rigore vengono per breve o lungo termine a contatto con le api, indipendentemente dal riscontro delle patologie. Fornire alle api arnie pulite, favi ben conformati e con non più di 3-4 anni di età, cera di sicura provenienza e lavorazione, telai usati ma raschiati e sbollentati in soda caustica (il cloro in questo caso non serve a molto), limitare la presenza di favi a poco più di quelli coperti dalle api, significa esaltare l’istinto di pulizia già innato per le api. La postazione stessa ove è ubicato l’apiario deve dare immediatamente l’impressione della pulizia: favi inutilizzati, loro parti, arnie vuote non bonificate, materiale obsoleto non utilizzato o usato per tutt’ altri scopi non devono essere presenti negli apiari visto che le api possono raccogliere , in periodi di carestia, cera e propoli presenti sulle arnie, coprifavi ecc. E ricordiamoci come la vita delle spore presenti su cera e propoli, al riparo da sole e umidità si prolunghi parecchio negli anni. Una pulizia periodica degli attrezzi apistici completa senza ombra di dubbio la gamma degli interventi . Con gli interventi di pulizia un cenno particolare merita la pratica della messa a sciame, pratica proposta per molto tempo come panacea ma a tutti gli effetti di efficacia molto limitata visto che con tale operazione si elimina tutto il materiale infetto ma non si riesce a limitare il numero delle spore presenti sulle api che, in un tempo più o meno lungo portano ad una nuova esplosione delle patologie. Dopo qualche anno passato a valutare il recupero delle famiglie ammalate messe a sciame, ho totalmente abbandonato questa pratica che di fatto si traduce in costi economici e di tempo ben superiori ai risultati che sporadicamente si possono ottenere. Inoltre in un programma di bonifica di arnie e dei vari componenti (telai, coprifavi, diaframmi etc.) l’opzione in soda caustica eseguita con le opportune cautele e valutando bene costi e benefici, oltre ad eliminare spore e quant’ altro, contribuisce non poco ad eliminare i residui di trattamenti antibiotici (qualora fossero stati eseguiti) sedimentati negli anni nel legno grazie all’azione veicolante della cera a cui essi si legano. Non può mancare una puntualizzazione sulla lavorazione della cera, trattata da sempre come sottoprodotto, a tutti gli effetti memoria chimica e biologica della vita dell’alveare. Il suo corretto utilizzo è alla base della prima bonifica che andiamo ad operare nei nostri apiari. Cera d’opercolo e cera di favo verranno lavorate in due linee diverse avendo cura si separare perfettamente le due origini. L’opercolo per la sua fondamentale caratteristica di essere prodotto in un momento dove gli interventi chimici (come gli acaricidi antivarroa) agli alveari non vengono effettuati, è la cera per eccellenza utilizzabile nella formazione dei fogli cerei per il ricambio periodico dei favi. Presenta una bassa quantità di residuanti anche se, nel caso di famiglie infette da patologie batteriche, può presentare una carica sporigena non indifferente, difficilmente eliminabile con le comuni lavorazioni a foglio. La cera dei favi , qualunque sia la loro origine, deve sempre essere allontanata dal ciclo biologico dell’alveare sia per l’enorme carica patogena che può presentare (non sempre infatti le cererie riescono ad effettuare una sterilizzazione corretta) sia per la mole di inquinanti chimici che vi si possono trovare. Per ultimo e di grande interesse, non possiamo dimenticare un utile intervento di pulizia “genetica” volta a eliminare, man mano che se ne presenti l’occasione, tutte quelle regine che hanno alle spalle problemi sanitari . Recuperarle, nel caso di malattie infettive gravi o non sostituirle (nei casi meno problematici come le micosi ) può, a lungo termine, incidere negativamente sulla gestione dei nostri apiari soprattutto considerando la presenza nell’ambiente di fuchi portatori di un patrimonio genetico più “recettivo” a queste patologie.
  • STERILIZZAZIONE: A rigor di logica è l’intervento con il quale si elimina qualsiasi forma vivente sia sulla superficie che all’interno dei materiali utilizzati in apiario. Può essere eseguito con varie modalità a seconda dell’organizzazione aziendale, dei materiali e delle attrezzature dove andiamo a intervenire .
  1. 1.Sterilizzazione a fuoco: viene usato su quei materiali che per loro natura risultano resistenti a questo intervento e perciò escludiregina(coincidendo a ciò l’intervento invernale di pulizia dei ponti di cera con cannello a gas) e leve. Ho invece abbandonato da molti anni questo intervento sulle arnie sia per la sua inaffidabilità che per la gravosità del lavoro unito anche ad un forte impatto usurante sul materiale.
  2. 2.Sterilizzazione a vapore: eseguito con l’ausilio di idropulitrice a caldo non si può considerare propriamente una sterilizzazione in quanto la temperatura raggiunta dall’oggetto dell’operazione non supera quasi mai durante l’intervento la soglia di 45-50 ° C , insufficienti ai nostri fini. Vale come una buona pulizia di fondo a materiali in manutenzione ordinaria.
  3. 3.Sterilizzazione a soda caustica: viene eseguita normalmente su telai, arnie, coprifavi e altri componenti in legno. Vista la gravosità (e pericolosità) del lavoro, tale intervento è giustificato solo dopo un’attenta analisi dei costi. Normalmente viene eseguito su grandi numeri( p.es. 3-4000 telai) per ottimizzare i tempi di lavoro nelle varie fasi(immersione in soda, risciacquo con idropulitrice, neutralizzazione acida, accatastamento in pallets….) .
  4. 4.Sterilizzazione a forno: non la pratico in azienda ma è diffusa nel mio territorio dove qualche apicoltore usa il forno a legna del pane per “cuocere” arnie, melari, telai (ovviamente senza cera!). Altre realtà usano forni a gas o elettrici modificati ad arte.
  5. 5.Sterilizzazione a paraffina: (o a cera microcristallina) diffusa in qualche realtà unisce l’utilità della sterilizzazione a quella della conservazione dei materiali in quanto le arnie e i melari immersi nella paraffina, risultando poi idrofughi , si conservano bene alle intemperie. Nonostante sia probabilmente un buon sistema non l’adopero per l’incompatibilità al regolamento “bio”.
  6. 6.Sterilizzazione a raggi gamma: è l’intervento ideale per favi e miele destinati al riutilizzo in apiario. Dopo un primo impatto, 10 anni fa, non molto positivo(fondamentalmente per organizzazione e costi), sono ritornato precipitosamente sui miei passi cercando di ottimizzare l’operazione. Al momento attuale riesco a sterilizzare circa 700 telai a pallet con una spesa di circa 150 euro (compresi gli oneri di trasporto all’impianto di Bologna); un’incidenza perciò di circa 21 centesimi a telaio. È un’ intervento che non altera favi e miele, permettendo di recuperare tutto quel materiale che, sebbene non obsoleto, sarebbe condannato a distruzione o fusione per evidenti precauzioni sanitarie. Al momento attuale agli alveari, nella normale gestione stagionale, vengono dati solo ed esclusivamente favi trattati in questo modo mentre tutti quelli asportati perché non indispensabili o in esubero vengono conservati in magazzino in attesa di essere inviati al processo. L’unico accorgimento da avere in questo campo è quello di non avviare alla sterilizzazione favi troppo vecchi o comunque con tare evidenti.

 

Varroa

Con nosema e avvelenamenti, rappresenta l’impegno più consistente ,sia economico che gestionale, che mi trovo annualmente a sostenere. Se per le precedenti patologie gli interventi sono quasi esclusivamente di profilassi e in ultima battuta la distruzione degli alveari infetti, per la varroa si tratta esclusivamente di abbattimento diretto dell’acaro vettore incontrastato di una miriade di virosi dirette responsabili della morte delle api. Dopo qualche anno di serenità, grazie all’efficacia di fluvalinate, coumaphos ,amitraz , per una mia etica personale nonché per esigenze di mercato, nel 2000 ho scelto la filiera “bio”, sconvolgendo in meno di un anno l’intero approccio alla lotta alla varroa.

Non senza conseguenze.

Se da una parte non ho più avuto minimamente problemi a vendere il miele, che, dato gli alveari che gestisco, in certi anni non è proprio poco, dall’altra il controllo dell’infestazione si è dimostrato parecchio preoccupante fino a raggiungere in certi anni perdite del 30-40% , solo parzialmente compensate dal maggiore prezzo del miele spuntato sul mercato. Non mi consola il fatto che anche chi lavora a chimico abbia subito, e subisce tuttora, perdite altrettanto consistenti.

Urgeva cambiare qualcosa.

E per farlo ho dovuto rispolverare la logica dei primi interventi con cui, negli anni ’80 , abbiamo aperto la nostra, ancora insoluta, battaglia all’acaro. Neanche a farlo apposta mi sono accorto che, integrandoli con meticolosi aggiustamenti, sono risultati più attuali di quello che credevo.

Partendo dai seguenti presupposti.

  • Contenere l’infestazione durante tutto il periodo dell’anno
  • Abbattere la varroa nel più breve tempo possibile
  • Arrecare meno danno possibile alle api

 

Per valutare il più possibile correttamente gli interventi ipotizzati bisogna però conoscere l’ambiente ove sono localizzati gli apiari che, nel mio caso, sono molto diversi: dal caldo torrido e afoso del Polesine rodigino al più temperato delle prealpi bellunesi e al decisamente fresco degli altopiani vicentini. Passando per le colline trevigiane. Dovendo tentare di standardizzare gli interventi e soprattutto valutarne correttamente i risultati ottenuti mi è stato difficile far cadere la mia scelta sugli evaporanti a base di timolo ( sia artigianali che reperiti sul mercato) che con temperature troppo alte sconquassano le famiglie e a quelle troppo basse non funzionano correttamente. Altro fattore non trascurabile è che tengono molto agitate le famiglie in una stagione dove gli interventi di manipolazione dei nidi sono all’ordine del giorno. Basti pensare solo alle ordinarie sostituzioni delle regine, alla formazione di sciami artificiali di fine stagione o alle nutrizioni. Tutte cose di non facile risoluzione specie con apiari consistenti e lontani da casa.

Ho valutato l’acido formico ancora negli anni ’90 ma non mi ha mai dato grosse soddisfazioni, vuoi per la difficoltà di dosaggio esatto vuoi anche e soprattutto per l’enorme causticità sia a livello epidermico che delle prime vie respiratorie. Anche le consistenti e imprevedibili perdite di regine non sono da sottovalutare specie in quelle annate e in quegli ambienti dove non si possono avere madri fino a tarda stagione. Aiutano poco i dosatori che in commercio oggi si trovano. Anche se hanno a volte ragione di trovare consenso presso piccole realtà, in effetti, nei grandi numeri creano più problemi che altro. Inoltre la migliore efficacia di questi interventi evaporanti si ha quando la famiglia subisce un blocco di covata “ chimico”, indotto cioè dalle massicce esalazioni all’interno dell’arnia.

La scelta perciò oggi si riduce ad acido ossalico e al blocco di covata.

Ed è su questi capisaldi che ho costruito la struttura della lotta alla varroa, cercando di ottimizzarla dal punto di vista economico e gestionale.

E questa logica si riduce semplicemente al fatto che questi interventi, al pari di tutti quelli eseguiti in apicoltura, si sviluppano sulla certezza di colpire l’acaro solo quando staziona sulle api adulte. Altrimenti, protetto dall’opercolo, all’interno della cella di covata, è assolutamente irraggiungibile. Il tutto confortato dal fatto che il blocco della covata, in certi momenti della vita delle api, è cosa del tutto naturale che ben si sposa al fine di contenimento della varroa.

Tradotto nella pratica di ogni giorno significa complementare i trattamenti con le comuni operazioni apistiche, lavorando” in primis” a tavolino per organizzarle e successivamente renderle operative in modo da soddisfare i punti precedentemente presupposti con un’ occhio particolare all’economia del lavoro.

Partendo dalla certezza di avere famiglie pulite all’apertura di stagione (o comunque di avere sotto controllo il valore dell’infestazione) si fa poco o niente fino alla fine del raccolto di castagno o millefiori ( circa metà luglio) o al massimo si cerca di dare un passaggio di gocciolato alle famiglie in blocco naturale (sciami o sciamate) che troveremo più avanti relativamente pulite. A tutte le altre l’esperienza mi ha insegnato a non impuntarmi a troppi passaggi di gocciolato durante i raccolti vuoi per il tempo che non c’è mai, vuoi per il fatto che comunque, in particolari periodi ( nell’intervallo tra acacia e fioriture successive, subito dopo la fine dei raccolti, in caso di stasi dell’attività di bottinatura, in aree particolarmente dense di alveari, etc.), le famiglie si reinfestano.

Sto provando, in questo intervallo di tempo dove il numero delle varroe è in accrescimento esponenziale ma non ancora troppo alto, un intervento con oli essenziali particolari su matrice di cellulosa. Per un contenimento senza grosse pretese di abbattimento, sta dimostrando buoni risultati specialmente se effettuato presto in primavera quando eliminare una varroa significa evitare di averne centinaia di li a un paio di mesi .

Tutto bene fino a metà di luglio dunque, ma da ora in poi non possiamo più permetterci di sbagliare pena un incontrollabile tracollo

La tabella di marcia perciò sarà così organizzata :

  • Le postazioni di alveari in produzione sono gestite con ordine di precedenza verso quelle che finiscono prima il raccolto
  • Nell’ordine di precedenza viene data priorità a quelle più infestate
  • La modalità di blocco viene valutata a seconda della presenza dei fuchi: per semplificare questo punto tendo a intervenire velocemente, sul finire del raccolto, in modo da mantenerne la popolazione a livelli sufficienti
  • Il blocco con le celle reali viene preferito sempre, compatibilmente al punto precedente
  • Le postazioni senza fuchi o le famiglie che hanno già avuto il cambio della regina vengono bloccate a gabbie
  • Tra le gabbie in commercio ho preferito quelle che permettono alla regina di mantenere un minimo di attività ovodepositiva utili, a mio avviso, soprattutto nel caso la si sequestri giovane e vigorosa
  • Ho valutato la possibilità di bloccare, in extremis, postazioni trasportandole in alta quota (1800-2000 mt) dove le famiglie si fermano da sole in breve tempo grazie al diverso gradiente climatico: esiste qualche serio problema di sbalzo, non tanto termico, quanto nutrizionale soprattutto per quelle spostate da zone molto calde e ancora ricche di polline. Il blocco, comunque è praticamente immediato anche se a volte, causa l’andamento climatico anomalo bisogna tener d’occhio che la famiglia blocchi veramente e in breve la covata. Le cose vanno meglio per quelle invece che sono già ambientate in montagna e che vanno solo “alzate” in quota.
  • Anche la possibilità di claustrare la regina in un favo posto sul coprifavo rovesciato sopra il nido e diviso da una griglia escludiregina ha aperto una nuova possibilità senza un grande impegno di nuovi materiali. Resta da considerare se vale la pena di eliminare il favo con covata infestata o formare dei nuclei da bloccare in vista di un trattamento.

Ora il lavoro sta nell’applicare con correttezza l’intervento con acido ossalico nelle sue due principali preparazioni: gocciolato e sublimato. Premetto che uso con successo entrambe le forme applicandole ad arte secondo le esigenze del caso.

MATERIALI

      

  • Acido ossalico soluzione 100/1000/1000 : per sgocciolature
  • Acido ossalico commerciale: per sublimazioni

 

           METODI

 

  • Siringa o bottiglia con beccuccio apposito per gocciolature
  • Sublimatore a carico automatico( nome commerciale: Alè ) che unisce una buona efficacia (80 %)ad una estrema velocità di esecuzione(20-25 sec)

 

APPLICAZIONE

 

  • Per le soluzioni di blocco con celle reali al momento dell’orfanizzazione , viene effettuato una prima gocciolatura per abbattere le varroe foretiche che potrebbero infestare la covata fresca nei prossimi giorni (ndt: l’efficacia dell’acido gocciolato si protrae per circa 5-7 giorni). Dopo 6 giorni viene data cella reale matura e protetta. A 15 giorni di distanza (non oltre!!) viene controllata l’avvenuta fecondazione e viene effettuato un secondo intervento di gocciolatura. Le fallanze vengono riprese o con l’ulteriore concessione di un’altra cella (stagione permettendo) o con introduzione di regina feconda.
  • La variante invece con la gabbia prevede la cattura e ingabbiamento della regina presente nella famiglia. Il favo con la gabbia viene poi posizionato al centro del nido per aiutare le api a “sentire” ancora la madre che ha ora una più limitata capacità di movimento e contatto con tutte le api. Anche qui viene fatta una prima gocciolatura. Allo scadere dei 18-21 giorni la regina viene liberata, viene rimossa la covata delle gabbie (molto infestata) e si procede con la seconda gocciolatura. Dove ce la faccio passo ulteriormente dopo 6-7 giorni con un passaggio di sublimato.
  • Per ottimizzare i tempi di lavoro, compatibilmente con lo stato della famiglia e la prospettiva stagionale , viene tolto un numero variabile di telai di covata (da 0 a 3 circa) per la formazione di nuclei di rimonta a cui verrà applicato blocco con cella.
  • Al momento della liberazione la regina viene valutata e se è il caso sostituita. In questo caso dopo circa 8 giorni si controlla l’avvenuta accettazione.
  • Nel caso di apiari bisognosi di nutrizione tento di far coincidere perlomeno una delle somministrazioni con il momento del controllo delle fecondazioni o della liberazione dalle gabbie. Per avere una ripartenza a deposizione un po’ agevolata. Sto valutando seriamente una nutrizione proteica di fine stagione.
  • Gli alveari invece portati in quota (estate 2005 e 2006) sono stati sottoposti ad una serie di sublimazioni che, viste le basse temperature, hanno unito un’ottima efficacia ad un ridotto numero di interventi (3), cosa che non si è ripetuta invece negli anni successivi a causa di un’eccessiva infestazione e a un’ andamento termico anomalo. Inoltre questi apiari hanno evidenziato in primavera un rilevante fenomeno di spopolamento dovuto probabilmente al fatto che il blocco ha interessato quel delicato momento di sostituzione delle api estive con le più longeve invernali, appena cominciato, in pianura, al momento dello spostamento. Questo a conferma del fatto che le api “sentono “ e “prevedono” la chiusura della stagione nell’ambiente in cui vivono.

 

CONSIDERAZIONI 

  • Il “sistema blocco” ha forse il limite fondamentale di non poter essere applicato in grande scala soprattutto in aziende di grandi dimensioni per gli inevitabili problemi di gestione. Può però, a mio avviso, essere applicato con successo in un sistema misto che preveda per esempio l’uso di evaporanti nelle zone calde e di blocco naturale nelle zone molto fredde di montagna. E’ comunque alla portata di tutti, soprattutto di chi ha una buona dimestichezza con le api e una spiccata capacità organizzativa.
  • Se applicato nei tempi canonici dell’ intervento tampone (fine luglio e agosto) specie in zone a chiusura stagionale anticipata (settembre - primi di ottobre) contribuisce a ristabilire l’equilibrio di pre - invernamento che le api perdono quando sono troppo infestate da varroa. Tende cioè ad aiutare la famiglia a ridurre gradualmente la covata fino alla fase di stasi invernale. Non allevando più covata autunnale le api invernali si mantengono così fisicamente efficienti nel superare l’inverno. Nel caso invece di areali a chiusura stagionale tardiva è fondamentale assicurarsi che l’allevamento di covata sia sufficiente a formare la popolazione invernale .
  • Come sempre un’ occhio particolare all’economia dei tempi di lavoro, che a prima vista sembravano veramente fuori di ogni tabella di marcia ragionevole. Ci sono state alcune sorprese:
  1. 1.per trovare la regina, ingabbiarla,posizionare il nutritore a tasca (o di altro tipo) e riempirlo, installare il diaframma, togliere la covata per formare i nuclei controllandone lo stato sanitario (pesti e micosi) e fare il primo passaggio di gocciolato, ci sono voluti circa 12 minuti per famiglia ( al netto dei tempi di spostamenti su strada, carico e scarico dei materiali).
  2. 2.mediamente si sono lavorati 100 alveari al giorno con una produzione di circa 50- 70 nuclei su 4 telai di covata.
  3. 3.per liberare le regine, sostituire quelle a fine ciclo, asportare la covata nelle gabbiette, gocciolare la seconda volta, riempire nuovamente i nutritori, altri 2- 3 minuti. In questo caso la produttività giornaliera è stata di circa 200-250 alveari.
  4. 4.il controllo della corretta deposizione nelle famiglie con cambio di regina e la normale attività nelle altre, un’eventuale altra nutrizione, altri 3 minuti.
  5. 5.i nuclei hanno realizzato 1 minuto per posizionare la cella e altri 2 per il controllo delle fecondazioni e la gocciolatura.
  6. 6.per sublimare l’acido alle famiglie , dopo 7 giorni dalla ripresa della deposizione ci è voluto 1 minuto compreso il tempo di carico e scarico di cavi e attrezzatura.
  7. 7.i punti 1-2-3 sono stati ottenuti in squadra di due persone, mentre gli altri possono essere agevolmente essere eseguiti da una sola persona.

 

Tenendo presente che normalmente le operazioni di :

  • formazione dei nuclei di rimonta (12 min/alv.)   100% famiglie interessate
  • ricerca e sostituzione della regina(12 min/alv.)   60%       “           “
  • controllo avvenuta fecondazione (1-2 min/alv.)   100% nuclei   interessati
  • nutrizioni (ogni intervento)           (2 min/alv.)       80% famiglie interessate
  • controllo stato sanitario estivo      (8-9 min/alv.) 100%     “               “      
  • intervento tampone antivarroa       (3-5 min/alv.) 100%     “             “

sono operazioni che si devono fare durante la stagione, anche se raggruppate per quanto possibile(p.es. formazione nuclei,cambio regine, nutrizione…) hanno comunque un consistente dispendio di tempo. Si evince perciò che un’operazione come il blocco di covata, che in totale abbisogna di circa 19-20minuti, si dimostra del tutto sostenibile perché strutturata all’interno di normalissime operazioni apistiche.

 

Per ultimo un cenno sulle inevitabili difficoltà rilevate durante l’esecuzione di queste pratiche. L’esigenza di non innescare saccheggi mi ha portato a lavorare molto velocemente ed ecco il motivo della squadra di due persone di cui una lavora sempre sugli alveari, passando di mano in mano i favi alla seconda. Le nutrizioni sono sempre state fatte alla fine del lavoro giornaliero per l’immediata reazione che dimostrano le api dopo questa operazione. I nuclei devono necessariamente essere portati molto lontano dal luogo di partenza, e, possibilmente dislocati da soli per non subire l’istinto saccheggiatorio presenza di famiglie forti. La presenza di fuchi in abbondanza è garanzia di sicuro risultato. Qualche regina attempata non risulta molto pronta nel riprendere la deposizione. Per il resto le famiglie si riprendono molto bene da questa interruzione forzata del loro ciclo biologico fermo restando che devono trovare un’ adeguata importazione di polline necessario alla nutrizione delle giovani larve. In un paio di casi sono stato costretto a spostare gli apiari in modo che avessero modo,con l’edera, di trovare soddisfatte queste esigenze. Anche alcune regine di sostituzione possono evidenziare comportamenti anomali come poca deposizione e propensione della famiglia a ricambiarle, ma sono convinto che comunque avrebbero avuto dei problemi anche senza blocco. Vanno dunque sostituite. Attenzione particolare deve essere data alla reinfestazione che può vanificare in breve tempo il lavoro svolto. È proprio quello che mi è successo in due postazioni, geograficamente molto distanti, dove le api si sono letteralmente riempite di varroa. Costretto a intervenire, pena un massiccio tracollo ho optato per un secondo blocco a distanza di 30 giorni dallo sblocco del primo. Le cadute di acari, al gocciolamento, sono state dell’ordine di 1000-1500 unità, mentre le api,contro ogni pronostico stanno, forse, meglio delle altre. Sono in attesa di intervenire con tre passaggi di sublimato sul blocco di covata invernale.

Ben si capisce che quanto finora descritto non può essere applicato pari pari ogni anno perché non tutte le stagioni sono uguali e tante sono le incognite che ci troviamo ad affrontare, ma con buoni aggiustamenti e ottima organizzazione, volta soprattutto a eliminare i tempi morti, può dare una certa continuità e sicurezza ai nostri sforzi nel contrastare questo parassita che produce danni gravissimi ancora dopo quasi 30 anni dalla sua comparsa.


Micosi

 Il trattamento e la cura delle micosi ( covata calcificata) non è da sottovalutare ma anzi da equiparare a pieno titolo alle patologie batteriche. Un distinguo può essere fatto solo per quanto riguarda le annate e gli ambienti umidi più favorevoli alla   loro insorgenza. Spicca, tra le operazioni preventive, l’accurata selezione di ceppi genetici di api non particolarmente recettivi a questo patogeno e l’eliminazione sistematica quanto prima possibile delle regine portatrici di tale handicap. L’incidenza annuale è in aumento, soprattutto quest’ anno, sia per l’estate e l’autunno piovosi e freddi (specie in montagna) sia per l’azione di rastrellamento, con i saccheggi, del patogeno in alveari limitrofi ammalati.

 

 

Nosema

Se c’è in apicoltura una patologia dai tratti confusi, indefiniti, in una parola, sconosciuti ai più, è proprio il nosema. Fino a pochi anni fa prerogativa quasi assoluta di ambienti freddi, umidi, ventosi, di alveari malnutriti e di andamenti stagionali assolutamente anomali si è posta, in breve tempo,ai primi posti come incidenza sulla mortalità delle api, tanto che la considero personalmente e nella mia realtà seconda per gravità solo alla varroa. È curioso come la definizione di “ malattia condizionata” coniata dalla dott.sa Anita Vecchi nel 1939 sia quanto mai attuale al giorno d’oggi per spiegare almeno in parte la recrudescenza di questo patogeno, per molti aggiornatosi da Nosema apis a Nosema ceranae.

Il Nosema è dunque una malattia che insorge nel momento in cui le condizioni di vita dell’ape lo permettono e la favoriscono. In due parole è una malattia terminale. Finisce perfettamente l’opera iniziata da altri patogeni (come le virosi portate dalla varroa) o da condizioni estremamente avverse all’ape ( come avvelenamenti o carenze nutrizionali). L’intervento dell’apicoltore, sia beninteso, è a volte uno dei fattori scatenanti la patologia, per errate operazioni o superficialità di intenti . Alla luce di questo, il problema non si dovrebbe porre : basta mantenere le api sempre al massimo della performance. Più semplice di così! Ma proprio qui sta il groviglio e per rendervi partecipi dei miei dubbi cercherò di esplicare il più chiaramente possibile le azioni di contrasto che metto in atto per tentare di non portare gli alveari a quella situazione “terminale” risolvibile esclusivamente con la loro soppressione e distruzione.

È opinione comune che il nosema,come la peste e la micosi, sia una malattia endemica e presente in tutti gli alveari ove lo si voglia cercare. Che cambia, all’esplodere dei sintomi, è il numero delle spore che passa da decine di migliaia a parecchi milioni. E sono questi parecchi milioni nel mesointestino che portano a morte l’individuo. Ma quali sono questi sintomi? Il nosema purtroppo è, a ragione, considerato una malattia “invisibile”. Spesso quando ce ne accorgiamo è troppo tardi!

Le feci sui favi e sul predellino dell’arnia sono solo il sintomo finale e, spesso, neanche tanto caratteristico. Quando le osserviamo non ci sono ormai più tante cose da fare. Spesso i sintomi più certi e inequivocabili sono le mancate produzioni di questi alveari che hanno “qualcosa che non va”, che sembrano “frenati”. A ben osservare sfido chiunque di non averlo notato almeno qualche volta!

Se prima dell’avvento di quella piaga che per noi apicoltori si chiama oggi “neonicotinoide” i sintomi tipici del nosema si potevano in qualche modo isolare e riconoscere, ora che gli avvelenamenti fanno da padroni, i sintomi, del tutto simili, si accavallano e si confondono. Anche a livello di laboratorio! La quasi totalità dei campioni inviati allo IZSV hanno evidenziato una forte presenza di spore ove si sia riscontrata anche una pur minima positività a questa classe di insetticidi. E che forse qualcuno su questo ci marcia non fa che preoccuparci ancora di più.

Non solo gli avvelenamenti fungono da fattore scatenante, anzi spesso la carenza proteica dovuta a scarso raccolto di polline o la sua scarsa qualità (non tutti i pollini contengono aminoacidi essenziali) carenza di nettare, squilibri di popolazione indotti da errate operazioni apistiche o spopolamenti dovuti a cause ambientali (leggi agricole) devono essere tenuti nella debita considerazione.

Il nosema è molto infettivo, forse ancor più di peste e micosi. Scambi di favi con api o senza da un alveare all’altro, da uno debole ad uno forte, scambi di materiale inerte (arnie, coprifavi, nutritori…), sono tra i fattori predisponenti il contagio. Nutrizioni eseguite in periodi non adatti (troppo freddo per il liquido) o per troppo tempo in condizioni avverse (candito durante l’inverno), con prodotti non adeguati (con troppo HMF , maltosio, maltodestrine, amidi ecc.), con prodotti squilibrati nel rapporto glucosio/fruttosio (a forte prevalenza del primo) possono essere fattori che contribuiscono all’insorgenza della patologia. Dopo la revoca dell’uso del Fumidil B, antibiotico a base di fumagillina per il contrasto della nosemiasi, sono stati ultimamente proposti prodotti a base di estratti vegetali ma, ancor oggi, i risultati delle loro applicazioni non trovano opinioni concordi.

Non sono purtroppo molte le cose da fare ma si possono riassumere così:

  • evitare di scambiare favi da una famiglia all’altra
  • indirizzare lo scambio di covata e api in concomitanza dei livellamenti stagionali sempre da alveari forti a quelli deboli e mai viceversa
  • mantenere sempre il più possibile omogenea la famiglia per non incorrere in gravi squilibri di popolazione
  • avere sempre un’ occhio particolarmente attento all’equilibrio termico nell’alveare soprattutto quando inizia la stagione, le api sono stressate dall’inverno, devono accudire la covata e le escursioni di temperatura sono ancora molto ampie .
  • non avere fretta di stimolare le famiglie soprattutto con andamenti stagionali rigidi. Le api in glomere non è bene vengano disturbate!
  • disporre gli apiari, durante l’inverno, in posizioni riparate dai venti dominanti, al riparo dall’umidità, con orientamento sud, sud-ovest, anche non eccessivamente coibentate
  • la migliore nutrizione primaverile è quella che si da in autunno: le api la ripongono nei favi già “predigerita” e la consumano al bisogno senza sbalzi di temperatura deleteri. Per capirsi: un famiglia che in dicembre è strutturata a glomere lo mantiene fino a che l’ambiente esterno (fotoperiodo, aumento di temperatura, prime piccole importazioni di polline etc.) produce stimolazioni tali da indurre la famiglia al “risveglio”. In questo momento la famiglia è “fredda” perché non produce che il calore necessario alla sopravvivenza delle api adulte; l’attività biologica è ridotta al minimo e al minimo è ridotto il fabbisogno di energia. Le api consumano perciò poco e il loro tubo digerente è pressoché pulito, con defecazione praticamente nulla. Un mese o un mese e mezzo in queste condizioni è una cosa normalissima e auspicabile a patto che abbiamo curato con attenzione l’eventuale nutrizione autunnale che deve essere di qualità tale da non produrre che il minimo quantitativo di scorie, pesanti per l’intestino dell’ape. In queste condizioni la letteratura ci dice che lo sviluppo del nosema è minimo. Ma se, nelle stesse condizioni ambientali, interveniamo con candito o sciroppi densi gocciolati le famiglie si “scaldano” anzitempo con effetti il più delle volte deleteri. Una famiglia “calda” fuori stagione ha un fabbisogno energetico incredibile e deve consumare molto, sia scorta di miele (o sciroppo) che polline visto che automaticamente comincia ad allevare covata. Le api mangiano e si riempiono l’intestino di scoria con conseguenze prevedibili. La temperatura poi è ottimale allo sviluppo delle spore che cominciano ad aumentare esponenzialmente nell’intestino. Si è innescato il meccanismo di malessere: il resto lo possiamo immaginare.  
  • assicurarsi che di pari passo alla nutrizione stimolante primaverile le api abbiano la possibilità di un abbondante raccolto di polline
  • il polline delle piante anemofile in genere è povero di aminoacidi essenziali per cui, in assenza di altre piccole fioriture che lo possano integrare, sarebbe bene intervenire con qualche integratore reperibile in commercio o preparato in casa ( lievito di birra, tuorlo d’uovo, farina di soia micronizzata etc.) dato in candito o sciroppo molto denso. Può aiutare ma sull’effettiva utilità e risposta pratica sono tanti ancora i dubbi da chiarire
  • curare che alle famiglie vengano sempre dati, durante tutta la stagione, scorte di magazzino sterili, per cui arnie e materiali ben lavati e favi sterilizzati possibilmente a raggi gamma.
  • Sappiamo che il nosema colpisce fortemente le api regine portandole ad un anticipato declino. Famiglie con sospetto o certezza di patologia avranno, una volta stabilizzate sanitariamente, sostituita la madre.
  • Di conseguenza al punto precedente, particolare cura deve essere posta nella gestione delle famiglie preposte alla produzione di celle reali e dei nuclei di fecondazione, strutturalmente predisposti alla contrazione della patologia. Chi ben comincia, è a metà dell’opera: con le api regine è obbligatoriamente così.

 

 Conclusione 

Non ho il dono di cristallizzare in una sintesi il ” modus operandi” che mi accompagna ogni giorno con le api.

Ma ho accolto volentieri l’invito di portarvi qualche mia idea e osservazione soprattutto per il fatto che mi sono visto costretto a riordinare e rispolverare idee e conoscenze che in tanti anni di lavoro, convegni, letture e aggiornamenti ho accumulato e a volte dimenticato. E vi garantisco che non è stata cosa da poco!

Non è tutta farina del mio sacco.

Tanti amici, colleghi, ricercatori, studiosi, mi hanno in questi anni dedicato e profuso tempo e conoscenza. A tutti loro va la mia più viva   riconoscenza perché i risultati li vedo ogni giorno, al lavoro, negli apiari sparsi nel mio Veneto apistico.

Ma il ringraziamento più grande e profondo va a chi ha voluto credere nel mio strano e bizzarro lavoro, ad aspettarmi nelle lunghe notti dei nomadismi, a sopportarmi nelle frenetiche giornate della “stagione”, a condividere la rabbia degli avvelenamenti……., a curiosare con me, ogni giorno, nel mondo delle api.

 

                                         A Roberta e ai miei figli Maria e Alessandro        

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