CONTROLLO DELLE PATOLOGIE APISTICHE IN UN’AZIENDA BIOLOGICA PROFESSIONALE

 Premessa

Se siamo oggi qui insieme a confrontarci, a cercare di capire e aggiungere un qualche contributo, nel panorama sempre più ampio delle patologie delle api, vuol dire che ci siamo resi conto che allevarle non è più semplice e conveniente come una volta. 

Da molto tempo ormai ad ogni convegno, aggiornamento, studio o semplicemente in più di qualche riunione locale, le novità sui loro malesseri e malattie sono sempre più argomento di preoccupata discussione.

Tentare di portare un contributo positivo sull’argomento di questo convegno, tradotto nella pratica lavorativa di ogni giorno, è impresa quanto mai titanica vista la quantità e il numero delle casistiche che si devono considerare in una economica gestione dell’allevamento apistico.

Il tutto deve inoltre essere inquadrato all’interno della più ampia variabile ambientale

dove le api conducono la loro quotidiana attività, intendendo qui l’impatto devastante, a breve e lungo termine, di gran parte dei principi chimici utilizzati in agricoltura o più in generale nell’ambiente, specialmente quello antropizzato, nonché le variazioni climatiche e botaniche che lo hanno caratterizzato in questi ultimi anni.

Per ultimo non sarebbe fuori luogo una coscienziosa considerazione sull’evoluzione del nostro modo di “fare apicoltura” sempre più teso ad esasperare api e produzioni senza tenere nel debito conto le esigenze di benessere biologico di cui abbisognano i nostri alveari.

        Francesco Bortot      Apicoltore Professionista - Tecnico Apistico APAT

                                  Commissione Tecnico-Sanitaria APAT

Introduzione

Equiparare le api ad un qualsiasi animale domestico è probabilmente lo sbaglio più grosso che un’ apicoltore possa fare. È vero che oramai le api non riuscirebbero più a vivere (perlomeno nel breve periodo e alle attuali densità ) senza l’intervento dell’uomo, ma limitare l’influenza e le conseguenze delle nostre operazioni quotidiane o stagionali ai singoli alveari è quanto mai deleterio. Considerando invece l’ape, o meglio l’alveare, come un’entità biologica territoriale, potremmo tentare di spiegarci tanti comportamenti anomali, l’incidenza o la recrudescenza di certe patologie, le difficoltà di sviluppo e inserimento a pieno regime nella realtà produttiva che ci aspettiamo dai nostri impianti.

Un qualsiasi animale selvatico ha bisogno di un suo areale, più o meno ampio a seconda delle dimensioni e del suo comportamento sociale, per vivere e prosperare senza incorrere in sofferenze alimentari o sovrappopolazione che spianano la strada a quelle regolazioni naturali che sono le malattie .

A ben guardare , per l’ape è la stessa cosa .

Apiari troppo consistenti possono essere assimilati agli allevamenti intensivi della moderna zootecnia e troppi alveari nello stesso territorio devono essere accuditi con oculatezza e collaborazione, a volte difficilmente raggiunte, tra gli addetti ai lavori.

Entrano qui in gioco oltre le figure professionali o amatoriali preposte alla gestione delle api, anche e soprattutto Enti, Istituti , Asl e Associazioni che oltre alla preparazione tecnica e professionale hanno l’incombenza di organizzare persone e mezzi in funzione di una corretta gestione del territorio apistico sia dal punto di vista sanitario che nutrizionale. Più semplice a dirsi che a farsi ; ma solo per questa strada, lavorando insieme, si possono ottenere i migliori risultati.

In fin dei conti per troppo tempo le api e l’apicoltura sono state , e sono tuttora, un settore sommerso da tanti punti di vista e per questo spesso dimenticato. Il gran polverone che in questi tempi lo ha caratterizzato, nonostante un primo grande risultato (ndt. la sospensione dei neonicotinoidi per al concia del mais), rischia di ricaderci addosso nascondendoci ancora di più e vanificando sforzo e lavoro di ancora troppo poche persone coinvolte in un’Apicoltura degna di tale definizione.

In particolare, per entrare nel merito dell’argomento, il controllo delle patologie apistiche passa non solo attraverso l’intervento diretto verso di esse ma, anche e soprattutto, per tutte quelle attenzioni che dobbiamo prodigare ai nostri allevamenti al fine di promuovere un vero benessere dell’”organismo”alveare: la Buona Pratica Apistica non è altro che questo.

Alla luce di quanto esposto vi porto la mia esperienza ventennale di apicoltura imprenditoriale fatta di tanti sbagli, tanta fatica, tante soddisfazioni , tanti problemi , tanti colleghi e amici apicoltori, tanti interrogativi risolti o rimasti tali, tanta curiosità.

Perché è tutto questo che in effetti ci aiuta e ci fa andare avanti.

Con un pizzico di tenacia.  

 

Peste americana ed Europea

Rientrate a pieno titolo nelle preoccupazione degli apicoltori mostrano in questi ultimissimi anni una recrudescenza preoccupante, dovuta in particolare modo alla sospensione della somministrazione illegale di antibiotici (da parte delle aziende che li usavano) grazie all’aumento dei controlli da parte delle autorità preposte. Non più “coperte” dallo spettro d’azione del farmaco le famiglie a rischio si ammalano in breve tempo inquinando tutto l’areale circostante causa la loro debilitazione e l’istinto saccheggiatorio che le api dimostrano verso alveari deboli, morti o moribondi presenti nel territorio, coinvolgendo nel tracollo api e apicoltori che finora hanno lavorato bene.

Nella casistica dell’incidenza però, salvo casi particolari,queste patologie non hanno avuto una grande importanza nella mia gestione sanitaria.

Ho sospeso la somministrazione di tetracicline e solfatiazolo nel 1985, passando da un’incidenza del 7-8 % in presenza di antibiotici a quella attuale che nel 2007 è stata pari allo 0.5%,con un’impennata nel 2008 ,causa i saccheggi di fine stagione 2007, pari al 2%. Considerando entrambe le patologie e i nomadismi spinti che mi portano a lavorare al fianco di apicolture di cui non conosco, se non in minima parte, i connotati, mi sembra un risultato di tutto rispetto.

Penso perciò di avere risposto a tutti quelli che mi chiedono cosa penso dell’uso di antibiotici.

Di pari passo , per ottenere questi traguardi , ho lavorato e lavoro parecchio sulle buone pratiche igieniche in apiario, tenendo conto dell’enorme difficoltà di separare le fasi di lavorazione. Non ho la possibilità di ridare alle famiglie gli stessi favi, gli stessi melari, le stesse arnie, non posso controllare tempestivamente gli eventuali saccheggi, ho l’esigenza di scambiare parecchio materiale biologico da un’ alveare all’altro (per esempio con i livellamenti stagionali) e perciò mi gioco tutto sulla prevenzione , pulizia e sterilità dei materiali usati.

Per semplificare quanto esposto proviamo a considerare i tre momenti ben distinti.

 

 

  1. 1.Sterilizzazione a fuoco: viene usato su quei materiali che per loro natura risultano resistenti a questo intervento e perciò escludiregina(coincidendo a ciò l’intervento invernale di pulizia dei ponti di cera con cannello a gas) e leve. Ho invece abbandonato da molti anni questo intervento sulle arnie sia per la sua inaffidabilità che per la gravosità del lavoro unito anche ad un forte impatto usurante sul materiale.
  2. 2.Sterilizzazione a vapore: eseguito con l’ausilio di idropulitrice a caldo non si può considerare propriamente una sterilizzazione in quanto la temperatura raggiunta dall’oggetto dell’operazione non supera quasi mai durante l’intervento la soglia di 45-50 ° C , insufficienti ai nostri fini. Vale come una buona pulizia di fondo a materiali in manutenzione ordinaria.
  3. 3.Sterilizzazione a soda caustica: viene eseguita normalmente su telai, arnie, coprifavi e altri componenti in legno. Vista la gravosità (e pericolosità) del lavoro, tale intervento è giustificato solo dopo un’attenta analisi dei costi. Normalmente viene eseguito su grandi numeri( p.es. 3-4000 telai) per ottimizzare i tempi di lavoro nelle varie fasi(immersione in soda, risciacquo con idropulitrice, neutralizzazione acida, accatastamento in pallets….) .
  4. 4.Sterilizzazione a forno: non la pratico in azienda ma è diffusa nel mio territorio dove qualche apicoltore usa il forno a legna del pane per “cuocere” arnie, melari, telai (ovviamente senza cera!). Altre realtà usano forni a gas o elettrici modificati ad arte.
  5. 5.Sterilizzazione a paraffina: (o a cera microcristallina) diffusa in qualche realtà unisce l’utilità della sterilizzazione a quella della conservazione dei materiali in quanto le arnie e i melari immersi nella paraffina, risultando poi idrofughi , si conservano bene alle intemperie. Nonostante sia probabilmente un buon sistema non l’adopero per l’incompatibilità al regolamento “bio”.
  6. 6.Sterilizzazione a raggi gamma: è l’intervento ideale per favi e miele destinati al riutilizzo in apiario. Dopo un primo impatto, 10 anni fa, non molto positivo(fondamentalmente per organizzazione e costi), sono ritornato precipitosamente sui miei passi cercando di ottimizzare l’operazione. Al momento attuale riesco a sterilizzare circa 700 telai a pallet con una spesa di circa 150 euro (compresi gli oneri di trasporto all’impianto di Bologna); un’incidenza perciò di circa 21 centesimi a telaio. È un’ intervento che non altera favi e miele, permettendo di recuperare tutto quel materiale che, sebbene non obsoleto, sarebbe condannato a distruzione o fusione per evidenti precauzioni sanitarie. Al momento attuale agli alveari, nella normale gestione stagionale, vengono dati solo ed esclusivamente favi trattati in questo modo mentre tutti quelli asportati perché non indispensabili o in esubero vengono conservati in magazzino in attesa di essere inviati al processo. L’unico accorgimento da avere in questo campo è quello di non avviare alla sterilizzazione favi troppo vecchi o comunque con tare evidenti.

 

Varroa

Con nosema e avvelenamenti, rappresenta l’impegno più consistente ,sia economico che gestionale, che mi trovo annualmente a sostenere. Se per le precedenti patologie gli interventi sono quasi esclusivamente di profilassi e in ultima battuta la distruzione degli alveari infetti, per la varroa si tratta esclusivamente di abbattimento diretto dell’acaro vettore incontrastato di una miriade di virosi dirette responsabili della morte delle api. Dopo qualche anno di serenità, grazie all’efficacia di fluvalinate, coumaphos ,amitraz , per una mia etica personale nonché per esigenze di mercato, nel 2000 ho scelto la filiera “bio”, sconvolgendo in meno di un anno l’intero approccio alla lotta alla varroa.

Non senza conseguenze.

Se da una parte non ho più avuto minimamente problemi a vendere il miele, che, dato gli alveari che gestisco, in certi anni non è proprio poco, dall’altra il controllo dell’infestazione si è dimostrato parecchio preoccupante fino a raggiungere in certi anni perdite del 30-40% , solo parzialmente compensate dal maggiore prezzo del miele spuntato sul mercato. Non mi consola il fatto che anche chi lavora a chimico abbia subito, e subisce tuttora, perdite altrettanto consistenti.

Urgeva cambiare qualcosa.

E per farlo ho dovuto rispolverare la logica dei primi interventi con cui, negli anni ’80 , abbiamo aperto la nostra, ancora insoluta, battaglia all’acaro. Neanche a farlo apposta mi sono accorto che, integrandoli con meticolosi aggiustamenti, sono risultati più attuali di quello che credevo.

Partendo dai seguenti presupposti.

 

Per valutare il più possibile correttamente gli interventi ipotizzati bisogna però conoscere l’ambiente ove sono localizzati gli apiari che, nel mio caso, sono molto diversi: dal caldo torrido e afoso del Polesine rodigino al più temperato delle prealpi bellunesi e al decisamente fresco degli altopiani vicentini. Passando per le colline trevigiane. Dovendo tentare di standardizzare gli interventi e soprattutto valutarne correttamente i risultati ottenuti mi è stato difficile far cadere la mia scelta sugli evaporanti a base di timolo ( sia artigianali che reperiti sul mercato) che con temperature troppo alte sconquassano le famiglie e a quelle troppo basse non funzionano correttamente. Altro fattore non trascurabile è che tengono molto agitate le famiglie in una stagione dove gli interventi di manipolazione dei nidi sono all’ordine del giorno. Basti pensare solo alle ordinarie sostituzioni delle regine, alla formazione di sciami artificiali di fine stagione o alle nutrizioni. Tutte cose di non facile risoluzione specie con apiari consistenti e lontani da casa.

Ho valutato l’acido formico ancora negli anni ’90 ma non mi ha mai dato grosse soddisfazioni, vuoi per la difficoltà di dosaggio esatto vuoi anche e soprattutto per l’enorme causticità sia a livello epidermico che delle prime vie respiratorie. Anche le consistenti e imprevedibili perdite di regine non sono da sottovalutare specie in quelle annate e in quegli ambienti dove non si possono avere madri fino a tarda stagione. Aiutano poco i dosatori che in commercio oggi si trovano. Anche se hanno a volte ragione di trovare consenso presso piccole realtà, in effetti, nei grandi numeri creano più problemi che altro. Inoltre la migliore efficacia di questi interventi evaporanti si ha quando la famiglia subisce un blocco di covata “ chimico”, indotto cioè dalle massicce esalazioni all’interno dell’arnia.

La scelta perciò oggi si riduce ad acido ossalico e al blocco di covata.

Ed è su questi capisaldi che ho costruito la struttura della lotta alla varroa, cercando di ottimizzarla dal punto di vista economico e gestionale.

E questa logica si riduce semplicemente al fatto che questi interventi, al pari di tutti quelli eseguiti in apicoltura, si sviluppano sulla certezza di colpire l’acaro solo quando staziona sulle api adulte. Altrimenti, protetto dall’opercolo, all’interno della cella di covata, è assolutamente irraggiungibile. Il tutto confortato dal fatto che il blocco della covata, in certi momenti della vita delle api, è cosa del tutto naturale che ben si sposa al fine di contenimento della varroa.

Tradotto nella pratica di ogni giorno significa complementare i trattamenti con le comuni operazioni apistiche, lavorando” in primis” a tavolino per organizzarle e successivamente renderle operative in modo da soddisfare i punti precedentemente presupposti con un’ occhio particolare all’economia del lavoro.

Partendo dalla certezza di avere famiglie pulite all’apertura di stagione (o comunque di avere sotto controllo il valore dell’infestazione) si fa poco o niente fino alla fine del raccolto di castagno o millefiori ( circa metà luglio) o al massimo si cerca di dare un passaggio di gocciolato alle famiglie in blocco naturale (sciami o sciamate) che troveremo più avanti relativamente pulite. A tutte le altre l’esperienza mi ha insegnato a non impuntarmi a troppi passaggi di gocciolato durante i raccolti vuoi per il tempo che non c’è mai, vuoi per il fatto che comunque, in particolari periodi ( nell’intervallo tra acacia e fioriture successive, subito dopo la fine dei raccolti, in caso di stasi dell’attività di bottinatura, in aree particolarmente dense di alveari, etc.), le famiglie si reinfestano.

Sto provando, in questo intervallo di tempo dove il numero delle varroe è in accrescimento esponenziale ma non ancora troppo alto, un intervento con oli essenziali particolari su matrice di cellulosa. Per un contenimento senza grosse pretese di abbattimento, sta dimostrando buoni risultati specialmente se effettuato presto in primavera quando eliminare una varroa significa evitare di averne centinaia di li a un paio di mesi .

Tutto bene fino a metà di luglio dunque, ma da ora in poi non possiamo più permetterci di sbagliare pena un incontrollabile tracollo

La tabella di marcia perciò sarà così organizzata :

Ora il lavoro sta nell’applicare con correttezza l’intervento con acido ossalico nelle sue due principali preparazioni: gocciolato e sublimato. Premetto che uso con successo entrambe le forme applicandole ad arte secondo le esigenze del caso.

MATERIALI

      

 

           METODI

 

 

APPLICAZIONE

 

 

CONSIDERAZIONI 

  1. 1.per trovare la regina, ingabbiarla,posizionare il nutritore a tasca (o di altro tipo) e riempirlo, installare il diaframma, togliere la covata per formare i nuclei controllandone lo stato sanitario (pesti e micosi) e fare il primo passaggio di gocciolato, ci sono voluti circa 12 minuti per famiglia ( al netto dei tempi di spostamenti su strada, carico e scarico dei materiali).
  2. 2.mediamente si sono lavorati 100 alveari al giorno con una produzione di circa 50- 70 nuclei su 4 telai di covata.
  3. 3.per liberare le regine, sostituire quelle a fine ciclo, asportare la covata nelle gabbiette, gocciolare la seconda volta, riempire nuovamente i nutritori, altri 2- 3 minuti. In questo caso la produttività giornaliera è stata di circa 200-250 alveari.
  4. 4.il controllo della corretta deposizione nelle famiglie con cambio di regina e la normale attività nelle altre, un’eventuale altra nutrizione, altri 3 minuti.
  5. 5.i nuclei hanno realizzato 1 minuto per posizionare la cella e altri 2 per il controllo delle fecondazioni e la gocciolatura.
  6. 6.per sublimare l’acido alle famiglie , dopo 7 giorni dalla ripresa della deposizione ci è voluto 1 minuto compreso il tempo di carico e scarico di cavi e attrezzatura.
  7. 7.i punti 1-2-3 sono stati ottenuti in squadra di due persone, mentre gli altri possono essere agevolmente essere eseguiti da una sola persona.

 

Tenendo presente che normalmente le operazioni di :

sono operazioni che si devono fare durante la stagione, anche se raggruppate per quanto possibile(p.es. formazione nuclei,cambio regine, nutrizione…) hanno comunque un consistente dispendio di tempo. Si evince perciò che un’operazione come il blocco di covata, che in totale abbisogna di circa 19-20minuti, si dimostra del tutto sostenibile perché strutturata all’interno di normalissime operazioni apistiche.

 

Per ultimo un cenno sulle inevitabili difficoltà rilevate durante l’esecuzione di queste pratiche. L’esigenza di non innescare saccheggi mi ha portato a lavorare molto velocemente ed ecco il motivo della squadra di due persone di cui una lavora sempre sugli alveari, passando di mano in mano i favi alla seconda. Le nutrizioni sono sempre state fatte alla fine del lavoro giornaliero per l’immediata reazione che dimostrano le api dopo questa operazione. I nuclei devono necessariamente essere portati molto lontano dal luogo di partenza, e, possibilmente dislocati da soli per non subire l’istinto saccheggiatorio presenza di famiglie forti. La presenza di fuchi in abbondanza è garanzia di sicuro risultato. Qualche regina attempata non risulta molto pronta nel riprendere la deposizione. Per il resto le famiglie si riprendono molto bene da questa interruzione forzata del loro ciclo biologico fermo restando che devono trovare un’ adeguata importazione di polline necessario alla nutrizione delle giovani larve. In un paio di casi sono stato costretto a spostare gli apiari in modo che avessero modo,con l’edera, di trovare soddisfatte queste esigenze. Anche alcune regine di sostituzione possono evidenziare comportamenti anomali come poca deposizione e propensione della famiglia a ricambiarle, ma sono convinto che comunque avrebbero avuto dei problemi anche senza blocco. Vanno dunque sostituite. Attenzione particolare deve essere data alla reinfestazione che può vanificare in breve tempo il lavoro svolto. È proprio quello che mi è successo in due postazioni, geograficamente molto distanti, dove le api si sono letteralmente riempite di varroa. Costretto a intervenire, pena un massiccio tracollo ho optato per un secondo blocco a distanza di 30 giorni dallo sblocco del primo. Le cadute di acari, al gocciolamento, sono state dell’ordine di 1000-1500 unità, mentre le api,contro ogni pronostico stanno, forse, meglio delle altre. Sono in attesa di intervenire con tre passaggi di sublimato sul blocco di covata invernale.

Ben si capisce che quanto finora descritto non può essere applicato pari pari ogni anno perché non tutte le stagioni sono uguali e tante sono le incognite che ci troviamo ad affrontare, ma con buoni aggiustamenti e ottima organizzazione, volta soprattutto a eliminare i tempi morti, può dare una certa continuità e sicurezza ai nostri sforzi nel contrastare questo parassita che produce danni gravissimi ancora dopo quasi 30 anni dalla sua comparsa.


Micosi

 Il trattamento e la cura delle micosi ( covata calcificata) non è da sottovalutare ma anzi da equiparare a pieno titolo alle patologie batteriche. Un distinguo può essere fatto solo per quanto riguarda le annate e gli ambienti umidi più favorevoli alla   loro insorgenza. Spicca, tra le operazioni preventive, l’accurata selezione di ceppi genetici di api non particolarmente recettivi a questo patogeno e l’eliminazione sistematica quanto prima possibile delle regine portatrici di tale handicap. L’incidenza annuale è in aumento, soprattutto quest’ anno, sia per l’estate e l’autunno piovosi e freddi (specie in montagna) sia per l’azione di rastrellamento, con i saccheggi, del patogeno in alveari limitrofi ammalati.

 

 

Nosema

Se c’è in apicoltura una patologia dai tratti confusi, indefiniti, in una parola, sconosciuti ai più, è proprio il nosema. Fino a pochi anni fa prerogativa quasi assoluta di ambienti freddi, umidi, ventosi, di alveari malnutriti e di andamenti stagionali assolutamente anomali si è posta, in breve tempo,ai primi posti come incidenza sulla mortalità delle api, tanto che la considero personalmente e nella mia realtà seconda per gravità solo alla varroa. È curioso come la definizione di “ malattia condizionata” coniata dalla dott.sa Anita Vecchi nel 1939 sia quanto mai attuale al giorno d’oggi per spiegare almeno in parte la recrudescenza di questo patogeno, per molti aggiornatosi da Nosema apis a Nosema ceranae.

Il Nosema è dunque una malattia che insorge nel momento in cui le condizioni di vita dell’ape lo permettono e la favoriscono. In due parole è una malattia terminale. Finisce perfettamente l’opera iniziata da altri patogeni (come le virosi portate dalla varroa) o da condizioni estremamente avverse all’ape ( come avvelenamenti o carenze nutrizionali). L’intervento dell’apicoltore, sia beninteso, è a volte uno dei fattori scatenanti la patologia, per errate operazioni o superficialità di intenti . Alla luce di questo, il problema non si dovrebbe porre : basta mantenere le api sempre al massimo della performance. Più semplice di così! Ma proprio qui sta il groviglio e per rendervi partecipi dei miei dubbi cercherò di esplicare il più chiaramente possibile le azioni di contrasto che metto in atto per tentare di non portare gli alveari a quella situazione “terminale” risolvibile esclusivamente con la loro soppressione e distruzione.

È opinione comune che il nosema,come la peste e la micosi, sia una malattia endemica e presente in tutti gli alveari ove lo si voglia cercare. Che cambia, all’esplodere dei sintomi, è il numero delle spore che passa da decine di migliaia a parecchi milioni. E sono questi parecchi milioni nel mesointestino che portano a morte l’individuo. Ma quali sono questi sintomi? Il nosema purtroppo è, a ragione, considerato una malattia “invisibile”. Spesso quando ce ne accorgiamo è troppo tardi!

Le feci sui favi e sul predellino dell’arnia sono solo il sintomo finale e, spesso, neanche tanto caratteristico. Quando le osserviamo non ci sono ormai più tante cose da fare. Spesso i sintomi più certi e inequivocabili sono le mancate produzioni di questi alveari che hanno “qualcosa che non va”, che sembrano “frenati”. A ben osservare sfido chiunque di non averlo notato almeno qualche volta!

Se prima dell’avvento di quella piaga che per noi apicoltori si chiama oggi “neonicotinoide” i sintomi tipici del nosema si potevano in qualche modo isolare e riconoscere, ora che gli avvelenamenti fanno da padroni, i sintomi, del tutto simili, si accavallano e si confondono. Anche a livello di laboratorio! La quasi totalità dei campioni inviati allo IZSV hanno evidenziato una forte presenza di spore ove si sia riscontrata anche una pur minima positività a questa classe di insetticidi. E che forse qualcuno su questo ci marcia non fa che preoccuparci ancora di più.

Non solo gli avvelenamenti fungono da fattore scatenante, anzi spesso la carenza proteica dovuta a scarso raccolto di polline o la sua scarsa qualità (non tutti i pollini contengono aminoacidi essenziali) carenza di nettare, squilibri di popolazione indotti da errate operazioni apistiche o spopolamenti dovuti a cause ambientali (leggi agricole) devono essere tenuti nella debita considerazione.

Il nosema è molto infettivo, forse ancor più di peste e micosi. Scambi di favi con api o senza da un alveare all’altro, da uno debole ad uno forte, scambi di materiale inerte (arnie, coprifavi, nutritori…), sono tra i fattori predisponenti il contagio. Nutrizioni eseguite in periodi non adatti (troppo freddo per il liquido) o per troppo tempo in condizioni avverse (candito durante l’inverno), con prodotti non adeguati (con troppo HMF , maltosio, maltodestrine, amidi ecc.), con prodotti squilibrati nel rapporto glucosio/fruttosio (a forte prevalenza del primo) possono essere fattori che contribuiscono all’insorgenza della patologia. Dopo la revoca dell’uso del Fumidil B, antibiotico a base di fumagillina per il contrasto della nosemiasi, sono stati ultimamente proposti prodotti a base di estratti vegetali ma, ancor oggi, i risultati delle loro applicazioni non trovano opinioni concordi.

Non sono purtroppo molte le cose da fare ma si possono riassumere così:

 

 Conclusione 

Non ho il dono di cristallizzare in una sintesi il ” modus operandi” che mi accompagna ogni giorno con le api.

Ma ho accolto volentieri l’invito di portarvi qualche mia idea e osservazione soprattutto per il fatto che mi sono visto costretto a riordinare e rispolverare idee e conoscenze che in tanti anni di lavoro, convegni, letture e aggiornamenti ho accumulato e a volte dimenticato. E vi garantisco che non è stata cosa da poco!

Non è tutta farina del mio sacco.

Tanti amici, colleghi, ricercatori, studiosi, mi hanno in questi anni dedicato e profuso tempo e conoscenza. A tutti loro va la mia più viva   riconoscenza perché i risultati li vedo ogni giorno, al lavoro, negli apiari sparsi nel mio Veneto apistico.

Ma il ringraziamento più grande e profondo va a chi ha voluto credere nel mio strano e bizzarro lavoro, ad aspettarmi nelle lunghe notti dei nomadismi, a sopportarmi nelle frenetiche giornate della “stagione”, a condividere la rabbia degli avvelenamenti……., a curiosare con me, ogni giorno, nel mondo delle api.

 

                                         A Roberta e ai miei figli Maria e Alessandro        

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